Ma non c'è solo il cadavere. Siamo all'inizio dell'estate e l'ultimo villaggio Walser si ripopola di turisti e villeggianti; succedono altre cose, tante,
slegate tra loro. Ci sono crimini contro l’ambiente, contro gli animali,
contro le persone. Crimini più o meno riconoscibili e riconosciuti,
come i crimini del cuore. Ci sono tre adolescenti – Pietro, Ariel e
Rafael – che stanno vivendo l’estate della loro vita. C’è anche una
donna scomparsa tredici anni prima. E questa è “solo” la parte gialla.
Come in ogni romanzo di Elisabetta
Bucciarelli, forse progressivamente sempre di più, ci sono decine di
riflessioni che si affastellano nella mente al termine della lettura.
Proverò a riordinarle.
La Montagna – Devo
premettere che non sono un’amante della montagna, l’ho praticata troppo
poco per avere con essa un legame affettivo. Sono un tipo da mare (anche
per questo c’è una spiegazione: «Abitiamo i luoghi che abbiamo dentro. In effetti, c’è molto caos in giro e il sale cura bene le ferite»).
Quindi ho approcciato con un certo sospetto le prime pagine:
l’ambiente, gli animali, i riti, persino gli uomini, così taciturni e
dediti ad attività a me estranee, mi sembravano alieni. Alla fine del
romanzo sento invece di avere un legame speciale con questi luoghi
descritti in modo minuzioso, magici, forieri di pace e di cambiamento.
Una prospettiva completamente rovesciata, insomma.
Adolescenza – Già in Corpi di scarto
Elisabetta Bucciarelli aveva esplorato i legami affettivi che si creano
fra adolescenti e che a volte arrivano a surrogare quelli con la
famiglia di origine. Pietro è figlio – ribelle – di genitori separati,
Ariel è cresciuta con il nonno Zefiro e lo zio Cianna, Rafael è il
prodotto un po’ grezzo di un padre macellaio. I tre esplorano l’ambiente
in lungo e in largo, è Ariel che introduce il cittadino Pietro alla
conoscenza dei misteri della montagna: Pietro era consapevole di
possedere un pensiero omologato, gli serviva per stare nel gruppo, per
avere le sue amicizie, quelle che gli garantivano di non restare solo e
di costruirsi un ascendente sul mondo. Ma in quel bosco le sue ordinarie
certezze non servivano poi a tanto. Stava camminando con una femmina
che pareva più un maschio, che l’aveva visto filarsela per la paura e lo
trattava come se fosse una delle sue vacche, trascinandoselo dietro
come si farebbe con un fratello minore.
Adesso aveva fatto anche la figura dello scemo, ripetendo considerazioni desuete persino per una pastora di un villaggio a duemila metri. Ma non era importante, quello non era certo il suo ambiente, poteva permettersi di fare e dire qualsiasi cosa.
Era solo e non aveva testimoni. Tornò alla carica.
Adesso aveva fatto anche la figura dello scemo, ripetendo considerazioni desuete persino per una pastora di un villaggio a duemila metri. Ma non era importante, quello non era certo il suo ambiente, poteva permettersi di fare e dire qualsiasi cosa.
Era solo e non aveva testimoni. Tornò alla carica.
Sono quasi adulti in un’età di confine,
alle prese con problemi e dubbi, distanti dal mondo degli adulti che
spesso ne ignorano bisogni e segreti.
La Voce – Qualcosa di analogo c’era già al centro della discarica di Corpi di scarto,
ma qui La Casa, e La Voce che la abita, assumono un ruolo ancora più
determinante. C’è un’affascinante contraddizione nel rilevare che alla
scrittura rigorosa, alle descrizioni puntigliose, alle vicende che si
dipanano nel rispetto dei nessi di causa ed effetto, si affianca una
sorta di Imponderabile, una presenza misteriosa che sembra
introdurre, nel razionalismo praticato da Vergani (e, oserei dire,
dall’autrice) un elemento di casualità. O forse, più che di casualità si
dovrebbe parlare di “ciò che non conosciamo”, ciò che sfugge al nostro
controllo, anche il più rigido. Un elemento misterioso ammantato però di
valenza positiva.
La malattia – In un
mondo in cui la memoria sembra avere un’importanza fondamentale, Cianna
era l’esatta dimostrazione del contrario. L’uomo deve dimenticare per
poter sopravvivere, ha necessità di rimuovere, di cancellare per poter
continuare il suo cammino. In altre parole, laddove ci si ostina a
pescare nella storia privata e pubblica, il morbo di Alzheimer agisce da
antidoto, invalidando i centri preposti al recupero delle informazioni.
In un mondo evidentemente “malato” ma di una malattia difficilmente
identificabile, Cianna, che ”si ammalò per dimenticare un amore non
corrisposto”, è l’unico la cui malattia ha un nome e una
riconoscibilità.
La morte – È un evento naturale, certo. Ma è anche altro. Si
muore troppo noi donne, in troppi modi diversi. Di malattia,
incurabile, non necessitata, eppure im possibile da evitare. Si muore di
dolore, di paura e di noia. Si muore di sogni svaniti e di speranze
evanescenti, di troppa dedizione e di parole aride. Di violenza e di
rabbia. Si muore dimenticate o dimenticandosi che c’è sempre qualcuno
che resta.
L’ispettore Maria Dolores Vergani e l’amore
– Ho già detto che Vergani sta riflettendo sull’opportunità di cambiare
lavoro. Ma non solo. Ci sono ancora dei vuoti esistenziali che devono
essere colmati: Lui si prese un po’ gioco di lei: «Signora Vergani. Sei sposata? Non lo sapevo».
«No» rispose secca lei, ma l’alternativa era ancora peggio, che l’appellativo signora fosse per via dell’età, quella zona innominata tra quando si è signorine e single e quando non si è mogli né madri e nemmeno del tutto anziane o vecchie. Mancava il nome, quello esatto sarebbe stato adulta, ma Adulta Vergani sembrava un patronimico. C’era un vuoto verbale che coincideva con uno stato esistenziale frequente e ancora considerato anomalo dai conformisti, se ne rese conto in quel momento più che mai.
Ci sono delle cose lasciate in sospeso, sfilacciature emotive: mentre provava a togliersi dall’impaccio del silenzio sentì affiorare, senza possibilità di reprimerla, la sgradevole sensazione di essere fuori dai giochi. Scegliere una solitudine consapevole era un conto, sentirsi esclusa un altro.
E delle stonature, che Vergani nota soprattutto nel rapporto dell’amico Achille Funi con Nina, l’anatomopatologa con cui il neoispettore intrattiene una relazione (e che a Vergani proprio non va giù). E delle mancanze evidenti, riscontrabili più o meno in tutti i personaggi.
Posso dire però (posso?) che ci sono grandi cambiamenti in vista. Cambiamenti che Vergani razionalizza quando parla di lavoro (Per il momento la Vergani aveva declinato l’invito, non aveva smanie da professoressa, ma fu contenta di vedere che si potevano aprire orizzonti nuovi anche senza cercarli ostinatamente, solo mettendo in campo apertura e volontà di cambiare), ma che riguarderanno anche la sua vita.
«No» rispose secca lei, ma l’alternativa era ancora peggio, che l’appellativo signora fosse per via dell’età, quella zona innominata tra quando si è signorine e single e quando non si è mogli né madri e nemmeno del tutto anziane o vecchie. Mancava il nome, quello esatto sarebbe stato adulta, ma Adulta Vergani sembrava un patronimico. C’era un vuoto verbale che coincideva con uno stato esistenziale frequente e ancora considerato anomalo dai conformisti, se ne rese conto in quel momento più che mai.
Ci sono delle cose lasciate in sospeso, sfilacciature emotive: mentre provava a togliersi dall’impaccio del silenzio sentì affiorare, senza possibilità di reprimerla, la sgradevole sensazione di essere fuori dai giochi. Scegliere una solitudine consapevole era un conto, sentirsi esclusa un altro.
E delle stonature, che Vergani nota soprattutto nel rapporto dell’amico Achille Funi con Nina, l’anatomopatologa con cui il neoispettore intrattiene una relazione (e che a Vergani proprio non va giù). E delle mancanze evidenti, riscontrabili più o meno in tutti i personaggi.
Posso dire però (posso?) che ci sono grandi cambiamenti in vista. Cambiamenti che Vergani razionalizza quando parla di lavoro (Per il momento la Vergani aveva declinato l’invito, non aveva smanie da professoressa, ma fu contenta di vedere che si potevano aprire orizzonti nuovi anche senza cercarli ostinatamente, solo mettendo in campo apertura e volontà di cambiare), ma che riguarderanno anche la sua vita.
E ci sono una giornalista simpatica,
Annette, che prende temporaneamente il posto della storica amica Inga
(anche lei in vacanza) e la libraia, e un nuovo medico, Marco Giaguari,
che Vergani ha già incontrato “a sua insaputa”, come si usa dire. E poi
Zefiro e Oleandro e gli altri abitanti della valle, il pastore romeno,
l’imprenditore, il maestro di sci… Se c’è una cosa che mi piace e ancora
mi stupisce in Elisabetta Bucciarelli è il tocco che ha nel delineare,
nello scolpire un personaggio in due battute, per restituircelo
nitidamente, carattere e aspetto fisico insieme. La stessa abilità che
le riconosco nel creare situazioni ed emozioni “fittizie” nelle quali è
possibile riconoscersi e l’acume nel risolverle a suo modo.
Segnalo, a pagina 48, un parcheggiatore
abusivo di cui Funi deve occuparsi (e che i lettori abituali di
Bucciarelli riconosceranno immediatamente), e una misteriosa serie di
rapine in banca per le quali Funi e Vergani alla fine sembrano provare
quasi simpatia.
Anche se sembra che io abbia detto tantissimo, è ancora niente rispetto al contenuto del romanzo. Dritto al cuore ha la densità del deuterio
e lo stesso potenziale esplosivo. Un’architettura complessa, un puzzle
da tremila pezzi che si ricompone rapidamente nel finale, dopo che le
tessere sono state pazientemente assemblate in base ad affinità di
colore nelle sfumature e a impercettibili similitudini nei margini che
devono incastrarsi. È uno straordinario equilibrismo tra bravura e
intrattenimento: chi cerca il giallo troverà tanti crimini e tanti
colpevoli, chi cerca l’ambientazione troverà la passione per la
montagna, chi cerca emozioni e personaggi complessi non resterà deluso.
Dritto al cuore è un romanzo luminoso, d’amore ma in senso lato. Attraverso gli occhi attenti e silenziosi di Maria Dolores Vergani si dispiega un mondo bellissimo che, pur con le sue inevitabili storture, lascia ampio margine alla speranza. Perché prima o poi il destino ci ripaga di tutti i conti sbagliati che ci ha presentato.
QUI l'originale
Dritto al cuore è un romanzo luminoso, d’amore ma in senso lato. Attraverso gli occhi attenti e silenziosi di Maria Dolores Vergani si dispiega un mondo bellissimo che, pur con le sue inevitabili storture, lascia ampio margine alla speranza. Perché prima o poi il destino ci ripaga di tutti i conti sbagliati che ci ha presentato.
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